La rabbia del Lykaon

Il mio Racconto vincitore del Concorso per Aspiranti Autrici
della Leggere Editore
Matera, 30 settembre 2011
Women's Fiction Festival

Le ombre del crepuscolo si allungavano lentamente in quella chiara sera di giugno, vigilia di San Giovanni, e per le vie del borgo cresceva trepida l’attesa. La notte magica, la notte delle streghe, si approssimava. Dedicata alla divinazione e alla raccolta delle erbe, presto i contadini l’avrebbero illuminata con i loro falò, accesi ai crocicchi delle strade, dove i più coraggiosi si sarebbero lanciati saltando sul fuoco.

Lontano dal paese, sul limitare del bosco, sorgeva una vecchia casa scalcinata da cui uscì una ragazza con una sporta di vimini sotto il braccio. 

Misia indossava logore vesti da contadina, i lunghi capelli color miele trattenuti da un semplice fazzoletto scuro. Lasciato il sentiero, s’inerpicò agilmente su per il pendio boscoso, fermandosi di tanto in tanto per cogliere le officinali, che metteva al sicuro nella sporta.

Giunta alla sorgente fra le rocce, si sedette sulla riva della polla sottostante, attardandosi più del dovuto perché amava la sensazione di pace profonda, quasi mistica, che quel luogo ispirava; fissava l’acqua senza vederla, persa in un sogno segreto.

Un fievole suono penetrò la sua fantasia riportandola alla realtà.

Si sforzò di prestare attenzione: un debole guaito, la voce sofferente di un animale, spezzava il silenzio del bosco.

Incuriosita, si affacciò sull’orlo della forra vicina e nella luce che andava scemando quel che scorse bastò a farle accapponare la pelle.

Un corpo nudo, tremante, insanguinato, giaceva accovacciato in fondo al dirupo. Ciuffi di peli ispidi segnavano il profilo di braccia e gambe. I capelli, lunghi e scuri, proseguivano lungo tutta la spina dorsale. Era un uomo lupo. E guaiva.

La fanciulla indietreggiò, inorridita. Avrebbe voluto correre via, allontanarsi il più possibile da quell’incubo vivente, eppure non riusciva a muoversi. Come se quella cosa laggiù avesse il potere di trattenerla.

Attimi di panico infinito, prima di riuscire a scuotersi e correre via, inseguita da un angoscioso ululato.

Disperata, la creatura che era stata Roman Coulter, gridò tutta la sua rabbia impotente.

Qualcuno lassù in cima avrebbe potuto aiutarlo, aveva sentito chiaramente l’odore di uno degli Altri, invece aveva preferito andarsene, lasciandolo preda di quell’atroce agonia. I ricordi si agitavano confusi, la coscienza andava e veniva inframmezzata da immagini spezzate. Uomo e lykaon. Sensazioni travolgenti e pensieri razionali avanzavano in ordine sparso disputandosi la sua mente. Due cose soltanto erano nitide.  Il richiamo del Sangue, così improvviso, forte e impellente, che resistere al mutamento era stato impossibile e lo scatto secco, inesorabile, di una tagliola che aveva fermato la sua corsa liberatoria.

Il dolore e lo shock gli avevano impedito di riflettere con chiarezza. Era stata la muta a salvarlo. Ripresa la forma umana, con l’aiuto di una pietra, era riuscito ad aprire quello strumento di tortura. Libero, ma indebolito dalla perdita di sangue, non aveva completato la trasformazione e inoltre la gamba sinistra era inservibile. L’istinto l’aveva spinto a muoversi comunque, per cercare aiuto. Purtroppo, dopo pochi metri, era caduto nella forra procurandosi altri tagli e ferite. Ormai stremato, ancora non voleva arrendersi: con le ultime forze, disperatamente, cominciò a strisciare.

Soltanto quando fu a casa, la ragazza si ricordò della sporta dimenticata presso la fonte. Come sua nonna prima di lei, anche Misia era una guaritrice e non poteva fare a meno delle sue erbe. Curava i poveri del paese. Quelli che non potevano permettersi le cure del dottor Petiziol. Forse aveva avuto un’allucinazione, si disse. L’uomo lupo era una favola per spaventare i bambini. L’interno del burrone era già in ombra e la fantasia poteva giocare brutti scherzi quando si stava nel bosco, da soli, all’imbrunire. 

Con un profondo sospiro, si morse le labbra, ancora restia a liquidare la faccenda come un incubo a occhi aperti. Tornerò a prendere la sporta domattina, pensò, la rugiada di stanotte renderà le erbe ancora più potenti.

All’alba, era di nuovo presso la sorgente. Come aveva previsto, con la luce del nuovo giorno, tutto appariva normale. Una tortora tubava, nascosta da qualche parte.

La fanciulla sorrise, rassicurata.

Non lo vide finché non gli giunse proprio accanto. Era nascosto fra i cespugli di felce, coperto di terra e sangue. Quei ciuffi di peli che l’avevano tanto spaventata non c’erano più. Probabilmente non erano mai esistiti, se non nel gioco di luci e ombre del crepuscolo.

Si chinò per vedere. Eppure c’era qualcosa di strano … Aveva lasciato quel poveretto nel burrone. Era un miracolo che ne fosse uscito senza nessun aiuto. Anzi era un miracolo che fosse ancora vivo.

Non solo era vivo, ma anche incredibilmente forte, pensò disperata sentendosi afferrare alla gola. Si ritrovò a fissare due occhi di un azzurro intenso, vibranti di rabbia, che lampeggiavano in un volto spigoloso, scurito dal sole.

Mentre Misia ansimava spaventata, lo sconosciuto inspirò profondamente, e dopo un istante la lasciò andare con uno sbuffo sprezzante. La ragazza si accasciò in avanti, cercando di riprendere fiato e massaggiandosi la gola tumefatta.

“Eri tu, ieri sera … mi hai visto … e mi hai lasciato lì a morire …” l’accusò lui.

Però non sei morto, pensò lei, pragmatica.

“Le mie erbe le sono state utili comunque …” disse invece, notando che le aveva compresse intorno alla gamba ferita.

Lo sconosciuto aveva usato l’erba dei pastori, quella dalle foglie chiare e vellutate che assorbivano il sangue e arrestavano le emorragie.

Lui stava per ribattere, poi decise di ignorarla cercando sollievo nelle felci, umide e fresche, che lenivano il dolore delle ferite.

Il fatto che la sera avanti avesse cercato l’aiuto di un’umana gli dava la misura della sua folle disperazione. Che avrebbe potuto fare quella ragazzina, a parte rompersi l’osso del collo cercando di scendere nella forra o peggio, attirargli addosso la curiosità degli Altri quando la muta era ancora incompleta?

Molto meglio che fosse scappata via …

Però adesso non voleva andarsene, sentiva il suo sguardo che gli bruciava la schiena.  Si girò a mezzo per capire cosa la trattenesse ancora lì.

La sua sporta era proprio dietro di lui e la ragazza non osava avvicinarsi. 

“Prendi le tue erbe e vattene” ordinò secco.

Misia era abituata alla diffidenza della gente, giù in paese. Ormai non vi faceva più caso. Quel tono sprezzante invece l’aveva ferita. Chi credeva di essere quell’individuo? Nudo come un verme, si comportava con l’alterigia di un principe.

Lo superò con un balzo, raccolse la cesta e si allontanò a distanza di sicurezza prima di profferire velenosa: ”A domani. Verrò ad accertarmi che il signore non sia stato sbranato dai lupi.”

Gli stava augurando proprio il contrario, semmai, pensò lui divertito. Con un sogghigno si girò a guardarla mentre se ne andava. La figuretta snella l’aveva tratto in inganno, non era una ragazzina, era solo penosamente magra, quasi famelica.

Alla vista di quella schiena orgogliosa, qualcosa scattò dentro di lui e la richiamò: ”Aspetta.”

Lei si fermò, guardinga.

“ Aiutami e non te ne pentirai.”

Il suo sguardo dubbioso lo costrinse a spiegare: ”Stavo andando al matrimonio di mio fratello quando sono stato assalito dai banditi. Mi hanno preso tutto: soldi, cavallo, perfino i vestiti. Ho vagato per i boschi finché non sono caduto nel burrone. Poi sei arrivata tu e quando ho visto che mi abbandonavi ho perso la testa …”.

Una versione verosimile, pensò lei, a parte il fatto che fra quelle montagne non c’erano banditi.

“Dov’era diretto?”

“A San Raffaele, mio fratello si chiama Lars Coulter … se potessi fargli avere un messaggio …”.

Lei lo scrutò un istante, con gli occhi socchiusi, come valutandolo. La cerimonia era fissata proprio per quel giorno.

“Sarà fatto. E adesso addio, uomo lupo.”

Roman la fissò pensieroso. Non addio, piccola strega, solo arrivederci.

 



 


 







   




 

  

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